lunedì 3 marzo 2008

Mattatoio N. 5 : riflessioni sulla scrittura




Ho rimediato solo di recente ad una grave mancanza: non avevo infatti mai letto Mattatoio N.5 di Vonnegut.
Per chi non lo conoscesse, questo straordinario romanzo narra la storia di Billy Pilgrim, un americano qualunque, se non fosse che per qualche ragione (non è importante conoscerla) è sballottato continuamente su è giù per il tempo. Nel suo girovagare temporale si trova in continuazione a saltare su e giù per gli episodi della sua vita: alcuni assolutamente comuni, altri, molto “strani”, relativi al suo rapimento da parte di una razza aliena che lo ospita in uno zoo, in una sorta di Reality Show, ma la maggior parte relativi alla sua partecipazione alla seconda guerra mondiale: in particolare la sua prigionia presso i tedeschi e il momento culminante del bombardamento di Dresda, che è l’idea centrale da cui nasce il romanzo e il punto in cui si compie.

Si tratta di un’opera complessa e articolata. Si trova spesso scritto che è un romanzo contro la guerra. Mi sembra riduttivo. In realtà è molto di più: una riflessione sulla vita, sulla morte e sul destino insomma. Il perché non sia solo contro la guerra ce lo dice l’autore stesso :

Impedire una guerra è facile come fermare un ghiacciaio… E poi, anche se le guerre non fossero come i ghiacciai ci sarebbe sempre la morte, la morte pura e semplice.

E in effetti la morte è il tema ricorrente di questo romanzo più che la guerra.

Ciò su cui vorrei soffermare però ora la mia attenzione non è tanto il romanzo, quanto alcuni particolari che mi hanno colpito sul “metodo” scelto da Vonnegut per affrontare questo libro.

Cominciamo dalla scelta di utilizzare un romanzo fantascientifico per parlare di un fatto storico: il bombardamento di Dresda, da lui vissuto in prima persona.
I fanta-sciettici (quelli che di fronte alla parola storcono il naso, come se fosse stato assalito da qualche effluvio maleodorante) diranno : ma perché non scegliere un tono realistico per raccontare un episodio reale?
Ebbene, non si tratta di un approccio solo formale, ma sostanziale. Se il romanzo avesse avuto i toni, ad esempio, di un diario, non sarebbe stato un altro romanzo.
Vonnegut si allontana, infatti, da ciò che sta narrando: prende le giuste distanze ed evita di essere eccessivamente coinvolto, perché i fatti possano parlare da sé. Se ne allontana così tanto che Billy ci appare più come un testimone di tutto ciò che accade che come un attore. Lui è semplicemente un Pellegrino, non un motore degli eventi.
Allo stesso tempo l’autore vuol essere presente, vuole che noi lettori non ci scordiamo che, al di là toni visionari con cui narra la vicenda, ciò che ci racconta è la rielaborazione di una sua esperienza diretta. Come ottiene questo risultato? Violando le “regole” che esponevo in un mio precedente post sulla tecnica narrativa.

Guardiamo un momento alla struttura del romanzo : nel primo capitolo Vonnegut parla di sé, del perché abbia voluto scrivere questo libro, della sua genesi. Ci anticipa che gran parte delle cose che sta per raccontarci le ha vissute davvero :

“un tale che conoscevo fu veramente ucciso, a Dresda, per aver preso una teira che non era sua. Ed un altro veramente…”

Nel secondo capitolo inizia per davvero la storia di Bill Pilgrim. Kurt “persona” si fa da parte.

“Ascoltate:
Billy Pilgrim ha viaggiato nel tempo.”

Il narratore onnisciente inizia a raccontare. L’impressione di questo inizio posticipato è strana: come se l’autore avesse delle cose così importanti da dire che non può metterle in una introduzione, che molti non leggerebbero, così importanti che devono essere esplicitate prima della lettura.
La voce personale del primo capitolo diventa impersonale. Kurt diventa invisibile, smettiamo di percepire la presenza di un narratore “uomo” e diveniamo sempre più testimoni diretti della stramba vita di Billy, salvo poi di punto in bianco ricomparire con frasi del tipo “Un uomo disse questa cosa. E quell’uomo ero io”.
A questo punto il lettore sente stridere qualcosa, ode una nota stonata nel cambio di voce narrante. Ebbene quella nota stonata è, secondo me, voluta: sembra voler dire “non ti distrarre mi raccomando! Non ti lasciar prendere troppo dal gioco. Queste vicende le ho vissute per davvero: sono reali.”

Un altro particolare che mi sembra interessante riguarda l’abbondanza di chiavi di lettura che ci fornisce Vonnegut.
Ci sono autori e artisti si pongono su una altura e riempiono le loro opere di simboli, rimandi, immagini che non spiegano. Se il lettore vuol capire deve andare su da loro: non saranno certo loro a scendere per rendersi più comprensibili.
C’è da dire che, tranne che in casi in cui questo atteggiamento è portato agli estremi, mi sembra anche giusto che un autore voglia lasciare un po’ di ombra sui livelli di lettura che inserisce nella sua opera: spiattellare troppo può diminuire il fascino dell’opera e togliere il gusto al lettore che vuole analizzarla più a fondo. E poi, chissà magari i lettori e critici possono trovare significati a cui lo scrittore non aveva pensato, a volte anche più intelligenti e profondi di quelli originali…

In ogni caso probabilmente Vonnegut tiene tanto a fatto che Mattatoio N.5 venga compreso che ci fornisce un gran numero di chiavi di lettura: perché Billy saltella da un punto all’altro del tempo? Ce lo spiega parlando dei romanzi scritti da questa strana razza aliena che sono i Trafalmadoriani. Perché ogni volta che parla della morte di un personaggio? Ce lo spiega rivelandoci la natura del tempo. Perché la filastrocca citata sulla prima pagina del rimanzo? Ci spiega anche quello.
Ancora una volta Vonnegut viola quella che potrebbe essere una regola : “non dire tutto al lettore”, ma lo fa scientemente e con uno scopo.

Forse la conclusione a cui voglio arrivare è banale da dire : le tecniche narrative, i metodi è importante conoscerli anche per poter fare a meno di applicarli.

2 commenti:

Glauco Silvestri ha detto...

Bellissimo libro! :D
[o.t.]
Ti ho risposto sul mio blog, ad ogni modo, mandami una mail così la giro all'organizzatore e vediamo che si può fare, ok? :-)

Ne_na ha detto...

Bello il libro soprattutto dal punto di vista stilistico; l'utilizzo di un lessico semplice è ottimale, così come i termini gergali usati per sottolineare il comportamento delle armate naziste nei confronti dei prigionieri nei campi. Le espressioni 'così va la vita' e 'e così via' sono molto frequenti e creano un ritmo narrativo molto accelerato. La successione non cronologica dei fatti, inoltre, è molto efficace per catturare e mantenere l'attenzione del lettore che non può immaginare un seguito delle vicende e fa sì che crei curiosità.